43°41′,27 N 007° 20′,52 E
La prima volta che ho incontrato Mike Applebaum come insegnante di tromba nel corso di jazz del conservatorio mi ha chiesto di fare un assolo su un blues, per conoscerci. Ovviamente, e non mi sento nemmeno di farmene una colpa date le carature in gioco, ho cercato di fare bella figura tirando fuori tutte le note e le intersezioni che conoscevo fino ad allora. Lui ascolta, non inorridisce che già è qualcosa e poi mi dice: ok, ora facciamo una cosa che faccio fare ai bambini cui insegno. Rifai il tuo solo ma hai a disposizione solo il Sol, il Do e il Sib. Quello che era appena successo è una lezione ben più grande, ben più antica e ben più nota. Si tratta di limiti. Anche Novecento guardando dalla balaustra della nave da cui stava finalmente per scendere si rende conto che la città, nella sua esperienza, era la tastiera di dio: troppo grande, non si vedeva la fine dei tasti bianchi. E nei limiti impariamo ad essere liberi. D’altronde, un cane lasciato solo in una casa troppo grande per lui va in ansia e abbaia tutta la notte, per cui educatori consigliano di ridurre lo spazio che percepisce come suo territorio. Siamo animali, pensiamo in modo finito, e per capire chi siamo abbiamo bisogno di tracciare linee di matita, che siano rotte o confini. Ma più di questo, i limiti sono anche dei riferimenti, intorno ai quali tessiamo la nostra fantasia e sviluppiamo l’ingegno. Senza l’impossibilità al volo, non avrebbero immaginato gli aerei. Senza l’ostilità del mare, non avremmo osato traversare. Sono all’ancora in uno dei posti con maggiore concentrazione di ricchezza in Europa, nel mondo forse no perché i pozzi di petrolio incoronano altre latitudini, anche se quest’anno l’uomo e la donna più ricchi del mondo sono Francesi. Tiro la testa fuori dal passauomo in cabina e vedo la villa dei Rothschild. E sospiro nel vedere tutta questa edificazione, una costa dove il turismo è voyeurismo plutocratico. Non è male, ma io preferisco navigare per interfacciarmi con vibrazioni cromatiche autentiche, il verde delle foglie, l’azzurro dell’acqua, l’odore dell’erba calda portato dalla brezza di terra. E ripenso a tutte le esperienze high end che la carriera da musicista mi ha portato a sperimentare (“il giullare siede sempre accanto al re” cit.), tutte caratterizzate da un grande sentimento comune: la noia. Poter comprare tutto, avere la prima cosa che ci viene in mente, non avere limiti, genera delle banalità reiterate. Lo stesso drink a prezzi crescenti, la stessa musica con la cassa sempre più dritta, lo stesso film con attori sempre più pagati. Un panino sulla spiaggia è qualcosa che devi immaginare, devi aver imparato a fare, come nonna aveva imparato cosa mettere nel sugo. Devi navigare fino a quella spiaggia lì, farti o procurarti del pane, pregustare cosa ci metterai e allestire tutti i sentimenti che lascerai fiorire guardando le onde con i piedi sulla sabbia. Non c’è ristorante stellato che tenga, quel sentiero nel bosco resta l’esperienza più esclusiva che puoi fare, e per quanto l’agio non vieti di farsela quella passeggiata, il nocciolo della questione sta nel fatto che se manca la necessità, l’intima connessione con l’esigenza, manca anche lo stimolo, l’impulso a quel tipo di esperienza. Come dire, da ricco puoi fare esperienze umili, ma non le farai. Sicuramente esiste la volpe che dice all’uva di essere acerba, esisterà sempre. Ma anche l’uva ha le sue magagne a non sapere cosa si prova nell’immaginare il proprio mondo, quello fatto un miglio alla volta, con i calli sulle mani, i capelli pieni di sale, le labbra spaccate per le bestemmie e i sorrisi. Viva l’uva, viva la volpe.