39° 12.072’N 009° 7.465’E
Dopo un inverno in una terra straniera nei costumi e nella lingua, ma familiare dopo poco per i modi gentili e la cultura dell’accoglienza, tornare in un posto altrettanto familiare per averci passato più di un anno tra terra e acqua ha comunque il sapore del tornare. Non per i luoghi, non per la sensazione di dover guardare meno se non affatto le carte nautiche, ma quando alla prima cima che tocca terra ti senti chiamare da dietro e prima del tuo nome ci sono le parole “sei tornato”. Appartenere, se pur poco. È metà Giugno e il pontile del Marina del Sole fermenta di appassionati, professionisti, lavoratori e vacanzieri. Fermenta di una vita fatta di legno in fase di taglio, resine in catalisi, fronti crucciate alla ricerca di una soluzione e in definitiva un divenire continuo proprio della vita. Tornare è anche e soprattutto trovare affinità con la propria anima, col proprio spirito intimo, e qui è tutto speculare rispetto alla solitudine del porto patinato di Antibes. Quella solitudine fatta non di assenza di rapporti ma del sentire risuonare i tuoi attrezzi in un porto silenzioso, ornato di vascello che magicamente sparivano per poi tornare manutenuti da cantieri strapagati. Il mare è salsedine che corrode e esseri viventi che si oppongono, dolcemente e umilmente. Ma inesorabilmente, entrambi. Io mi ritrovo nel fermento, e in qualche modo vengo riconosciuto, vengo invitato al pranzo della domenica, porto e portiamo tutti qualche tributo enogastronomico sotto gli occhi stupiti di occasionali quanto fortunati turisti che chiedono se sia sempre così. Sì, lo è, anche quando non siamo a pranzo insieme. Prima di arrivare qui ho navigato lentamente e seguendo i venti tra nord ed est di quest’isola, lentamente al nord riparato dai venti e in attesa di impegni artistici, molto velocemente nello scendere lungo la costa est tra traversi e boline. Una sosta nella punta sud est di Villasimius in attesa che passasse il ponente come coda del Maestrale e poi a Cagliari. Mentre ero nel gota dei velisti con i guantini, l’arcipelago della Maddalena, mi supera un bellissimo Mylius yacht di 60 piedi avvantaggiandosi dell’abbrivio in un momento di crollo totale del vento. Mi avrebbe superato comunque, beninteso, ma il momento di bonaccia e la vicinanza hanno reso l’umiliazione comica. Bandiera italiana, Magic Rocket il nome, perché la breve vicenda merita gli onori dell’identificazione. “Mi date una spinta?” mi rivolgo ironico agli occupanti del veliero prestigioso. “E tu che ci dai? Non si fa niente per niente”. Prima risposta. Ultima. Senza entrare nel merito, da una parte la comunità della condivisione, dall’altra gli imprenditori delle spinte. Mi è venuto in mente quando ci si riferisce in letteratura all’ospitalità greca, come fosse un retaggio obsoleto di una cultura da studiare ma non da adottare. Mi è venuta in mente la vita dei rifugi in montagna, la condivisione di tanti anni fa con chi era in viaggio, il concetto di pellegrino, dove chiedere di cosa avesse bisogno non sottendeva la richiesta di un compenso. Ho pensato al mondo moderno del niente per niente, anche se a lungo termine. E ho pensato che quell’ospitalità, se vogliamo salvarci, deve tornare ad essere il piacere e l’unica voglia che si deve avere quando incontriamo uno straniero, eguagliata solamente dalla forza con cui ci si oppone ad uno straniero che voglia minare l’equilibrio comunitario. I sardi in questo sono maestri, tanto gentili quanto fermi con chi è minaccia, che non ha nulla a che fare con l’essere straniero. “Mi date una spinta?” “E tu che ci dai? Non si fa niente per niente” “Della felicità, ne ho molta.”